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Quelli che dicono che il Commercialista sparirà… e quelli che incrociano le dita

Sembra ormai dato per certo che il Commercialista sparirà, o meglio, sparirà il commercialista così come lo conosciamo.
Del resto, parliamoci chiaro, il modello di commercialista di oggi è un retaggio di riforme (prevalentemente fiscali) nate negli anni ’70 e ’80 del nostro Paese.
Ma sapete da quanto esiste la professione di revisori contabili e magistrati del fisco?
Da quando ne parlava Aristotele, come spiego ai miei allievi nel corso MasterBANK ©; solo che ora non ho voglia di fare dotte e pleonastiche citazioni in greco. Piuttosto, voglio parlare di attualità e non di storia, e dire (anche ai cervelli flessibili come il cemento che negli anni scorsi mi insultavano perché sostenevo queste tesi) un paio di cose.

La prima,

è che io da analista di Corporate Strategy non mi curo, ovviamente, delle singole persone, ma del ciclo di vita di un prodotto.
Così come è stato per l’albergo, o per il treno, il personal computer o l’MP3, così anche i servizi e le professioni nascono, crescono, giungono a maturità e muoiono, trasformandosi spesso in qualcosa di diverso che continua il ciclo economico.
Non sapere – o non volere accettare – tale realtà è umanamente comprensibile, dal punto di vista psicologico, ma poco utile sul piano economico. Poi, se siete contenti di non conoscere il modello delle cinque forze di Porter che vi spiega in modo inequivocabile perché le marginalità siano scese e scenderanno sempre di più in alcuni settori (quello contabile e degli adempimenti, in primis), liberi di farlo. Tutti i settori, secondo molti autori di strategia, competono sul valore o sul prezzo, e ciò che viene percepito come servizio a scarso valore accende la competizione sul prezzo. Dura lex, sed lex.

La seconda

è che, fino a ieri, queste erano le mie note argomentazioni (peraltro condivise da decine di commercialisti che affollano quest’anno la mia aula). Oggi, però, sono confermate da una delle massime riviste scientifiche al mondo: l’Harward Business Review.
Se non volete credere alle mie opinioni, potete prendere in considerazione un paper pubblicato su una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo.
E cosa ci dice questo articolo? In estrema sintesi, che ci saranno posti di lavoro a rischio, laddove l’automazione sarà più semplice.

I ricercatori predicono – dice la rivista – che i compiti di routine fisici e cognitivi saranno molto più suscettibili all’automazione.

Dei principali settori economici, il settore amministrativo è quello al terzo posto nella graduatoria a rischio di automazione, con una percentuale prevista del 60%.

Ora, non so voi, ma dato che io mi sono occupato di statistica nel passato, ritengo che una percentuale del 60% del verificarsi di un evento sia un dato probabilistico da prendere in considerazione con estrema attenzione; specialmente se riguardasse la mia vita e quella della mia famiglia.

Tutta la parte della professione legata al mondo amministrativo, cioè – per semplificare, mi sia consentita la licenza – tutta la parte contabile e degli adempimenti obbligatori, diventerà in futuro qualcosa fatto dalle macchine. Quindi, è poco prudente ritenere che l’automazione riguarderà solo la robotica, che peraltro è infatti al secondo posto della classifica. Quali lavori sono a rischio? – titola la prestigiosa rivista scientifica.

Non espongo in questo articolo la mia opinione, ma quella di autorevoli autori che pubblicano sulla più prestigiosa rivista mondiale di settore.

Source ‘Automation and Artificial Intelligence: how machines are affecting people and places’, by Mark Muro, Robert Maxim, and Jacob Whiton (Metropolitan Policy Program at Brookings, 2019)

Ora, alcuni potranno lanciare strali a me come è successo in passato, ma qui si dice chiaramente che ci saranno servizi che, in termini di ciclo di vita del prodotto, sono giunti al capolinea, cioè nella fase del declino.

A differenza degli esseri umani, tuttavia – come sanno coloro che hanno studiato strategia – i prodotti e servizi possono rinascere dalle proprie ceneri, come la fenice, ma con altre modalità. Se quindi in futuro ci saranno robot che produrranno le cose e ci saranno software che faranno la contabilità, le dichiarazioni dei redditi e compileranno gli adempimenti, ci saranno settori che non potranno essere facilmente automatizzati.

Leggete l’ultima riga della classifica?

Si chiama business, il mondo delle imprese. Incidentalmente, sono anche i vostri clienti. Solo che, mentre potranno rivolgersi a un software un domani per svolgere compiti che oggi sono svolti dalle vostre segretarie, avranno sempre bisogno di voi.

Sapete perché? Perché non si possono automatizzare alcune materie ad alto valore cognitivo e consulenziale.

Due, tra le tutte: la consulenza strategica e la pianificazione finanziaria. Naturalmente, ve ne sono altre, ma di questo io mi occupo e so che in questo campo professionale non esistono i software che danno risposte. Lo so perché, incidentalmente, sviluppo modelli finanziari da 25 anni che consegno nelle mani dei miei allievi. Ma noi non andiamo a vendere i software nelle aziende: andiamo a vendere i nostri cervelli, che usano quei modelli in modo elastico, entrando nelle formule e fornendo risposte che nessuna intelligenza artificiale può fornire.

Se non ci credete, sappiate che in 25 anni di professione non ho mai visto una delibera bancaria o un fondo di Equity entrare in una azienda con la firma di un software.

Così, se sappiamo pianificare il nostro futuro, possiamo mettere la testa sotto la sabbia (chiedendo che l’ordine, il Governo, lo Stato, qualcuno ci difenda) o cogliere da soli le opportunità.

Un ciclo si chiude e altri si aprono.

Il servizio in declino competerà sul prezzo, quelli che nascono sul valore. Ovviamente è molto più comodo restare nel mondo che si conosce bene, sperando che non cambi. Nell’altro mondo, una prateria di nuova consulenza si apre. Come scriveva Paul Sartre, l’uomo è condannato a essere libero.

La scelta, è solo vostra.

 

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