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Caro Commercialista ti scrivo per spiegarti perché soffri (ed io soffro con te)

Caro Commercialista ti scrivo, così almeno mi distraggo un po’, avrebbe detto il cantante.

Amico. La ragione, credo sia il fatto che mi sei simpatico. Simpatia, in greco antico, ha una radice composta di due parole, che significano insieme e sofferenza. Cioè, soffriamo insieme.

E ora, in questo memoriale diverso dal solito, caro amico, ti dirò perché siamo qui, a leggere e scrivere.

 

Perché siamo qui

Non sono un Commercialista, ma ho lavorato per tutta la vita con loro.

Di loro, per lo meno in termini statistici, ho una alta opinione.
La ragione fondamentale per la quale, anni fa, pensai a un progetto per loro, è che li stimo, in quanto sono studiosi.
Oggi, ti voglio dire la ragione essenziale per la quale provo simpatia verso questa categoria professionale; perché è vituperata.

Una categoria che teoricamente farebbe parte del mondo delle libere professioni è sotto attacco, da troppi anni, da chi ha interesse a sfruttarla.

Ma non starò qui a spiegarti cose che tu, per anni, hai insegnato a me che, come detto, Commercialista non sono. Intendo, invece, dirti perché io scrivo per voi, e perché tu sei qui a leggere.

Dopo anni che insegno strumenti operativi ai commercialisti, avendo insegnato a centinaia di loro, mi sono fatto una esperienza e credo di poter riassumere ciò che ti muove. No, non è solo il denaro. No, non è nemmeno soltanto il volere trovare un nuovo spazio professionale, strumenti operativi di consulenza, fare fatture in una rete di professionisti affermati e riconosciuti dal mercato. O meglio, non è solo questo.

La ragione che ti muove è un’altra: la ricerca.

La ricerca

In realtà, a me studiare è sempre piaciuto. Forse, tra i miei tanti difetti, è una delle cose che mi riesce meglio.

Ciò che contraddistingue il Commercialista da un normale generico consulente è proprio questo: il rigore, l’attitudine allo studio, all’approfondimento. Questo, mi fa ritenere questa persona sostanzialmente simpatica, nel senso antico sopra precisato.

Studiare, comporta fatica. E io, di fatica, ne ho fatta sempre tanta. Però, come scrive Platone, nell’Apologia di Socrate: “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. I tanti commercialisti che hanno seguito il mio corso MasterBANK e la mia scuola, hanno tutti in comune un segno distintivo di intelligenza, che per primo Platone presentò alla storia.
Il paradosso socratico del “so di non sapere” ha almeno tre ambiti applicativi, perfettamente adatti a spiegare il perché io abbia pensato una scuola per loro.

  • Il primo ambito è la contraddizione tra conoscenza concreta e conoscenza generale.
  • Il secondo è l’espressione di grande umiltà, di chi è disposto, a qualsiasi età, a rimettersi in cammino.
  • In terzo luogo, è la provocazione nei confronti del pensiero sofistico, perché permette di distinguere tra conoscenza autentica e opinione dominante.

Queste tre caratteristiche, se bene ci pensate, portano l’uomo alla ricerca del vero benessere: la ricerca della libertà interiore. Per tale motivo Socrate era considerato un ateo, dai suoi contemporanei.

Del resto, l’approccio fideistico al dogma dell’ordine è esattamente quello che considero un limite cognitivo, un processo di autocelebrazione, un rito esclusivo di chi teme di confrontarsi, davvero, non tanto con il mercato, quanto con sé stesso.

Sapiente è solo Dio che ci ha voluto dire che la sapienza umana vale poco o nulla. Ed è chiaro che se ha nominato Socrate, Egli ha voluto servirsi del mio nome a mò di esempio, come per dire: O uomini, sapientissimo fra voi è colui che, come Socrate, sa che la propria sapienza è nulla.

Platone, Apologia di Socrate

 

La ricerca del dubbio

Quindi, voi siete qui non solo perché siete uomini pratici, ma perché anche – rectius, soprattutto – siete uomini teorici.

Ve lo dice uno che, da tanti anni, considera l’accusa di essere un teorico come un complimento, e non un infamia, come nell’intento dei miei accusatori. Se non avessi coltivato, infatti, grande e rigoroso studio teorico, non avrei potuto produrre strumenti operativi su fogli di lavoro, cioè i modelli operativi e professionali completi che sono i segni distintivi e unici della mia scuola.

Se ci sono riuscito, in oltre vent’anni di studio applicato nella pratica professionale, è solo perché, come te che mi leggi, ero – e sono – appassionato dello studio. Sapevo che la conoscenza è potere (ancor di più nella consulenza) e che il detto socratico era quella matrice del dubbio di cui, molti secoli più tardi Cartesio fece la cifra del suo più alto pensiero.

E infatti, nella mia scuola, cariche, riconoscimenti e onori, compresi quelli di operare professionalmente sul campo, sono riservati non a coloro che ritengono, a priori, di essere i migliori, ma a coloro che lo dimostrano.

La logica di un ordine professionale è democratico.

La logica della nostra scuola è aristocratica.

Per spiegare il senso di tale affermazione, nell’ignoranza generale che – ancora una volta – considera un insulto il termine aristocrazia, faremo ricorso a un altro gigante del pensiero antico.

 

L’aristocrazia, poi, sembra consista soprattutto in ciò, che gli onori sono distribuiti secondo virtù (e infatti elemento distintivo dell’aristocrazia è la virtù, dell’oligarchia la ricchezza, della democrazia la libertà: che poi le decisioni siano prese dalla maggioranza esiste in tutte, … omissis…

Aristotele, Politica, Libro IV

 

Ma ciò che spinge gli uomini e le donne – scrivo in tal ordine poiché non mi serve il politicamente corretto, e le “mie” commercialiste lo sanno – che seguono la mia scuola alla ricerca della conoscenza è ancora altra cosa.

Per trattarla, cedo ancora la parola all’immenso pensatore del passato.

 

Per ciò ogni corpo naturale che partecipa alla vita sarà sostanza e precisamente sostanza nel senso di sostanza composta. E poiché si tratta di un corpo con una determinata qualità e cioè partecipa di vita, il corpo non sarà l’anima perché il corpo non rientra negli attributi di un soggetto, ma è piuttosto sostrato e cioè materia. E’ dunque necessario che l’anima sia sostanza, in quanto forma del corpo naturale che ha la vita in potenza. Tale sostanza è entelechia: dunque l’anima è entelechia d’un corpo di siffatta natura.

Aristotele, Fisica, Dell’anima, Libero II

Parole meravigliose, che servono, nella loro complessa profondità, a capire cosa muove i tanti commercialisti che io conosco.

Entelechia; cioè avente la vita in potenza. Tutti i commercialisti, uomini e donne, che ho avuto l’onore e il privilegio di guidare nella ricerca della conoscenza, avevano ed hanno sviluppata l’entelechia.

Ordunque, cominciamo a capire che ciò che li muove è una particolare ricerca, che non è certo di natura meramente materiale. Al contrario, è di tipo animistico e spirituale, per quanto molto pratico, perché attiene alla ricerca della vita.

La ricerca, in primis, della propria natura di uomo.

La natura dell’uomo

Da tanti anni lavoro con in commercialisti, come specialista di finanza aziendale, e ormai ho compreso che la nostra comune ricerca, al di là delle sciocche distinzioni di competenze spicciole – tra finanza e fisco, inter alia – sta nella natura dell’uomo.

Ma per capirla, occorre intendere che ciò che muove il Commercialista nelle mie aule, in modo talora conscio e talora inconscio, è l’anima.

L’anima non è un corpo, e l’anima intellettiva non si può ridurre ad anima sensitiva. Per spiegarlo, lascio il lettore alle parole di un altro pensatore di dimensione statuaria.

 

Nessun senso conosce sé stesso né la propria attività: la vista infatti non vede sé stessa né vede il suo vedere, ma ciò è compito di una facoltà superiore, come viene dimostrato (da Aristotele) nel III libro del De Anima. L’intelletto invece conosce se stesso e conosce la propria intellezione.
Per cui non si identifica con i sensi.

San Tommaso d’Aquino, I principi della natura, Capitolo II

 

Fra la opere strettamente filosofiche del Santo, particolare menzione merita l’opuscolo De principiis naturae ad fratrem Silvestrum, risalente ai primi anni del suo insegnamento all’Università di Parigi e che forse è la sua prima opera filosofica.

Il giovane baccelliere Tommaso d’Aquino, con tale opuscolo dedicato al suo confratello in religione fra Silvestro, vuole darci un riassunto di quanto esposto da Aristotele nei primi due libri della Fisica e nel quinto libro della Metafisica. Vengono trattati temi come potenza e atto, sostanza e accidenti, materia e forma.

Certo, voi venite nella mia scuola per trovare la materia di un modello su foglio di lavoro elettronico su temi di sostanza, come la valutazione finanziaria d’azienda, ma il vostro atto è legato alla vostra potenza, agli accidenti del percorso, alla ricerca di una forma. Che vogliate ammetterlo o meno, che ne siate consapevoli o meno, il vostro progetto è molto più alto della ricerca meramente nozionistica o anche applicata, perché non siete fatti di sole carte, ma anche di anima. Lo sapete, lo intuite e lo state cercando.

Del resto, dopo aver passato tanti anni a studiare, a praticare, a dar tutto voi stessi per il cliente, avete scoperto, magari in età non più giovane, di non aver più dal mercato quel riconoscimento che era dovuto ai dottori che, un tempo, erano stimati – giustamente – in gran conto.

Nuovamente, sarebbe stucchevole ricercarne le molte cause, delle quali ho già trattato diffusamente altrove. In questo testo, mi interessa invece concentrarmi sull’effetto, che è la tristezza.

Lascio nuovamente la spiegazione del mio pensiero all’immortale filosofo.

 

Videtur quod bonum amissum sit magis causa doloris quam malum coniunctum.

Tommaso d’Aquino

 

Nella Somma di Teologia, trattando di Passioni dell’Anima, alla questione 36, il filosofo tratta delle cause della tristezza.

La questione chiede se causa del dolore sia un bene perduto o un male presente. La risposta è quella sopra citata: sembra che provochi più dolore un bene perduto che un male presente. E questo, mi conduce alle conclusioni di questa particolare missiva all’amico Commercialista.

Conclusioni

Ho visto tanti allievi commercialisti venire nella mia scuola.

Uso il termine allievi in modo affettuoso, come loro ben sanno. Tutti loro avevano in comune questa cosa: la tristezza.
Dovuta a molte ragioni, talune professionali, talaltra personali, spesso per combinato disposto di entrambe le questioni.

Nella loro ricerca di uomini e donne, sapevano o intuivano che tale tristezza non era tanto dovuta alla loro condizione presente, quanto alla perdita di una condizione passata.

E’ il confronto, di cui pure il sommo poeta ci ricorda il valore, a condurci a riflessioni.

E quelli a me: nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Divina Commedia, Inferno, Canto V

Ogni dottore Commercialista sa questo.

Può non ammetterlo, ma intimamente lo sa.

Non parlo, naturalmente, di miseria in senso letterale, ma di miseria dell’anima. Ti assale, in un preciso momento della vita, quando non senti più gli stimoli che avevi, magari da ragazzo.
E allora, riprendi la ricerca, a qualunque età, per sentirti vivo. Per dare, più che per ricevere.

Ho visto quella luce brillare in troppi occhi di uomini e donne per non poterne parlare. E’ la luce del sapere di non sapere, la luce del dubbio, la luce della ricerca. Conduce a giocare con sé stessi come da bambini, a ricercare nuove sfide, a superare le prove.

Ho visto persone di ogni età affrontarle, prima con terrore di non farcela, poi con ansia, dopo con coraggio, alla fine con entusiasmo. Quelle persone hanno ritrovato la strada, il cammino. Nel farlo, hanno ritrovato la stima non solo degli altri, ma anche – cosa forse più importante – di sé stessi.

Sono orgoglioso di loro, perché a questo progetto sto dedicando la mia vita. Nel farlo, sono così altamente rispettoso del loro impegno professionale, del loro rigore metodologico, del loro amore per lo studio.

Taluni, non conoscendomi, dicono che io parli male dei commercialisti.

Caro amico, questo testo, che pubblico, è la mia risposta.

 

 

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