Perché il Commercialista deve spiegare all’imprenditore quanto costa il suo denaro
Il mestiere del commercialista è, diciamolo, oggettivamente complesso.
Non di rado viene interpellato dall’imprenditore per conoscere il suo parere in ordine a un investimento, a un ampliamento del magazzino, all’aprire un business parallelo, al fare una diversificazione di prodotto o processo, all’avviare una nuova attività, all’ampliamento di una sede di vendita, e via discorrendo.
In tutti questi casi, come noto, stiamo parlando di investimento.
In questi casi, ovviamente, si chiede al commercialista di dare un parere sulla valutazione dell’investimento. E’ opportuno farlo oppure no?
Il metodo
L’unico metodo utilizzabile, in questi casi, è quello della valutazione finanziaria dell’investimento. Il metodo reddituale, al contrario, che considera l’investimento sostenibile se il reddito supera gli interessi sul debito è del tutto foriero di errori, anche gravi.
Eppure, solitamente le banche ricevono dai commercialisti documenti, comunemente detti Business Plan, nei quali il professionista sostiene la finanziabilità di un progetto sulla base del seguente assunto: gli oneri finanziari sono inferiori al reddito operativo.
Con alcune varianti, ma i business plan sono fatti con questa logica (semplificata nella figura seguente):
Il problema di questo modo di ragionare è duplice, dal punto di vista concettuale:
- Mancanza di logica di cassa
- Mancanza di analisi del costo del denaro dell’impresa
Quanto al primo problema, non è questo il tema dell’articolo, ma è indispensabile passare da una logica di reddito a una logica di cassa. Questo comporta una diversa formulazione del business plan, atto a fare emergere driver di valori diversi, e cioè diverse configurazioni della cassa, riassunte in un documento finale detto cash flow statement.
Quanto al secondo problema, il punto è che molti commercialisti, pur tentando di fare emergere le reali dinamiche di cassa, per esempio facendo risultare in un rendiconto finanziario le reali movimentazioni dei flussi in entrata e in uscita, trascurano un’ottica molto importante.
Infatti, se noi facciamo risultare nel nostro modello di simulazione (chiamiamolo per semplicità business plan) dinamiche di cassa future legate ai flussi bancari, avremo due risultati:
- Entrate per flussi di cassa positivi della banca (di solito in una o più soluzioni)
- Uscite per flussi di cassa negativi verso la banca (di solito in più soluzioni, meno frequente un solo rimborso)
A prescindere dai piani di ammortamento del debito, variamente configurato, delle scelte di tasso e di rata, del tutto indifferenti al nostro ragionamento, si corre così un errore gravissimo.
L’errore è quello di sottostimare il costo del capitale.
Perché?
Il problema della sotto stima
Il problema della sotto stima del costo del capitale deriva dalla scelta del professionista di considerare, da un lato, il costo del capitale riferito al solo capitale bancario e, dall’altro, il rendimento del capitale ottenuto dall’azienda (solitamente con indici quali il ROCE, Return On Capital Employed).
Tuttavia, l’azienda è un unicum.
Se, quindi, il commercialista considera, tra gli impieghi finanziari, il complessivo, dato dalla sommatoria dei net fixed assets e del working capital, deve, per coerenza, considerare, dal lato delle fonti, la loro totalità.
Appare evidente, allora, che egli non stia considerando affatto il capitale proprio, per meglio dire il Patrimonio Netto aziendale.
Si badi bene, tale ragionamento, che ovviamente ha la sua piena ragion d’essere nelle società di capitali, non può essere trascurato nelle società di persone e nemmeno nelle ditte individuali. Per quanto si dimentichi sistematicamente, almeno nella logica italiana, il capitale messo dall’imprenditore esiste, non è zero.
Di più, non esiste oggi quasi nessuna operazione finanziaria che possa essere finanziata totalmente a debito, cioè con strumenti finanziari come il capitale bancario, di vario genere e tipo. Qualsiasi operazione, perfino quelle coperte dalla cosiddetta finanza agevolata, vedranno sempre una parte, più o meno rilevante, di capitale proprio messo dalla compagine sociale (o dall’imprenditore) a sostenere il piano. Di qui, il gravissimo errore di sottovalutazione aziendale dell’operazione.
Pensa forse il commercialista che quel denaro non costi?
L’errore concettuale deriva dal fatto che il denaro proprio, a differenza di quello bancario, non ha uscite predeterminate da un piano di rimborso, ma questo non significa che non abbia un costo.
Costa forse zero mettere capitale proprio in azienda?
Il costo del denaro
Qualsiasi commercialista che sia stato liquidatore di una qualsivoglia società sa benissimo quale sia il trattamento asimmetrico delle fonti di capitale. Per essere semplice, ogni imprenditore sa molto chiaramente che il suo denaro, messo in azienda, è l’ultimo a tornare a casa, in situazioni di mancanza di going concern.
Ergo, se il denaro dell’imprenditore è l’ultimo a tornare nelle sue mani, poiché prima si devono rimborsare tutti gli altri portatori di capitale, pagati tutti i creditori aziendali a vario titolo, allora quel denaro è a maggiore o minore rischio, rispetto a quello bancario?
Ovviamente, è a rischio maggiore; come noto, esistendo in finanza una relazione lineare rischio e rendimento, allora se ne deve dedurre – come si deduce – che il costo del denaro proprio deve necessariamente essere superiore (e di molto) al costo del denaro di terzi.
Di qui, una valutazione dell’investimento che, dal lato delle fonti, consideri solo il costo del denaro di terzi, e non di quello proprio dell’impresa, conduce a un gravissimo errore di sottovalutazione del costo medio ponderato del capitale. Pertanto, qualsiasi valutazione dell’investimento, anche se perfetta nell’analisi dei flussi, sarebbe totalmente errata in termini di risultato.
Infatti mentre potrebbe essere esatto il calcolo del rendimento dell’operazione (ROCE), sarebbe certamente errata la sua comparazione finanziaria con il costo dell’operazione (TAEG) considerando solo i costi del debito bancario, e non anche quelli del capitale proprio.
Consigli operativi
Il consiglio primo operativo è quello di partire da una valutazione di base dell’investimento, anche molto semplificato, dopo aver fatto una aggregazione di tutti i piani di investimento, in una tabella riepilogativa molto semplice ma chiara, come la seguente:
Come si vede nel caso in esempio, in questo caso l’azienda immetteva a sostegno dell’investimento una quota pari a, circa il 25% del valore dell’investimento stesso. Non considerare tale costo di denaro, comporterebbe un duplice errore:
- Sottostima del costo di circa il 25% del valore (un errore enorme, in termini di qualità)
- Sottostima del costo di molto superiore, perché ponderata con un costo del denaro maggiore
Infatti, il costo del denaro di questo 25% sarebbe ben maggiore di quello del restante 75%, e quindi l’errore di stima sarebbe ben superiore, se si ragiona – come di deve fare – in termini di rendimento finanziario. Il secondo consiglio operativo è quello di dotare il proprio modello di simulazione di parametri atti a simulare il reale costo dell’operazione, come nello schema della figura sottostante:
Così facendo, abbiamo un modello che considera sia il costo del capitale (Ke, cost of equity), sia il costo medio ponderato del capitale (WACC, weighted average cost of capital).
Le due formule sopra inserite consentono di rispondere a questi requisiti e a ridurre significativamente l’errore di valutazione (tendenzialmente a zero). Il consiglio finale è quindi quello di usare in combinazione le due tabelle al fine di determinare l’effettiva redditività finanziaria dell’operazione.
Conclusioni
Il lettore attento avrà notato, nella seconda tabella riferita al secondo consiglio, una cella gialla in fondo, contenente la dicitura “variazione attualizzazione di tasso per scenario”. Tale dicitura si riferisce alla previsione di valutazioni di redditività finanziaria di tipo what if.
Se infatti vogliamo dare una risposta ragionevole e prudenziale al nostro imprenditore, dovremo costruire un modello che dia anche indicazioni di sopportabilità di scenari negativi, per esempio in ordine al costo del denaro di terzi, che è la vera variabile a rischio, soprattutto nelle operazioni di lungo termine, considerando anche che, con tutta probabilità, dal momento del business plan al momento del closing bancario, magari al momento rappresentato da un mero term sheet indicativo, potrebbero passare settimane o mesi, con risultati finali di negoziazione non sempre favorevoli al cliente.
Il commercialista esperto in materia di finanziamenti d’impresa si siede sempre con l’imprenditore avendo davanti un prospetto come il seguente, derivante dal proprio modello.
Il consiglio finale è quello di dotare il proprio studio di strumenti di analisi evoluti e sofisticati come quelli cui si è appena accennato, per due ragioni.
La prima è che quella è la direzione nella quale sta andando, a passi da gigante, il sistema finanziario, mediante fusioni per incorporazioni, che impatteranno a brevissimo anche sulle analisi di progetto di piccole e micro imprese.
La seconda è che, in questa area di mercato di consulenza, a differenza di quanto avviene sul settore fiscale, esiste quello che in termini di strategia aziendale ha un nome ben preciso: “blu ocean”.
Esiste uno spazio di consulenza enorme, un oceano blu, nel quale portare la propria barca, il proprio studio professionale, per fare affari profittevoli.
Per inciso, valutando allo stesso modo descritto in questo articolo il costo della vostra barca.